Scarsa era la coltura della canapa in Camigliano, ma notevole ne era la lavorazione perché molti possidenti terrieri di Camigliano la piantavano in Comuni vicini situati verso la pianura. Nei mesi di agosto-settembre era bello vedere due o tre donne che lavoravano la canapa nella via davanti ai portoni di questi possidenti terrieri, allietando i passanti curiosi con i loro canti gioiosi.
I fusti di canapa, privati delle radici, legati a fasci, venivano fatti macerare per una settimana circa in vasche piene di acqua (i lagni) affinché la fibra si staccasse dal legno. Questi lagni si trovavano nelle campagne di produzione della canapa. I fasci si tiravano fuori, si lasciavano asciugare e quando erano ben asciutti, si dava inizio alla lavorazione. La lavorazione consisteva nel separare la fibra dalla parte legnosa che, una volta frantumata, era detta cannavuccioli, e ciò avveniva mediante la maciulla o gramola (“macenola”).
La “macenola” era costituita da due pezzi di tronco; uno era scavato a mo’ di solco e l’altro a mo’ di coltello. Erano uniti ad una estremità mediante un perno e tutti e due formavano una leva come lo schiaccianoci. La parte scavata a coltello veniva alzata e abbassata più volte, mediante un’impugnatura posta all’estremità, sul manipolo di canapa sino a quando tutta la parte legnosa veniva frantumata.
La pulizia della fibra si effettuava con l’operazione della “spatolatura”. Una volta terminata la spatolatura, la fibra era alquanto ben pulita, e legata in fasci veniva consegnata ad un centro di raccolta detto il Canapificio.
La fibra-cascame detta anche “stoppa” veniva usata per fabbricare sacchi e cordame vario. La fibra più lunga e più pulita veniva filata e tessuta per ottenere stoffe e lenzuola. La parte legnosa detta “cannavuccioli” veniva usata per accendere il fuoco.